Quando
la gente sente udire la parola Aspromonte pensa alla mafia, ai banditi e ai
briganti ma quest’area è fatta soprattutto di miti, leggende, storia, cultura e
tradizioni. Ha dato i natali a molti poeti, scrittori ed eroi ma è soprattutto
terra che custodisce una profonda religiosità dove sacro e profano, si
mescolano dando vita a momenti unici e di profonda ammirazione.
Questa
terra selvaggia e impenetrabile è cosparsa da una miriade di testimonianze
religiose che sono riuscite a giungere fin ai giorni nostri, primi tra tutti sono le tracce
lasciate dai monaci eremiti che si ritiravano in luoghi solitari come grotte,
foreste e sulle pendici delle colline, che divennero luogo d'alloggio e di preghiera.
Quando non potevano adattare grotte naturali, scavavano nella roccia, dove
creavano dei rifugi. Questi rifugi naturali, adattati a dimore, furono chiamati
"laure". Qui i monaci continuarono a praticare il loro culto. Fondamentali
erano tanto il lavoro manuale, che rafforza il corpo, quanto la preghiera, che
rinfranca lo spirito, come lo studio della Sacra Scrittura, che illumina
la mente.
Questi
potevano essere sia di rito greco che latino,
anche se spesso vengono erroneamente indicati come “Basiliani” e cioè seguaci
di San Basilio Magno di Cesarea tutti i monaci cattolici di rito greco.
Dal sec. XVI fino ad epoca recente, infatti, si è creduto in occidente che
tutti i monaci cosiddetti "greci", cioè di disciplina bizantina,
senza differenza di paese e di lingua, fossero «Basiliani», costituiti in
grande ordine, anzi, che quest'ordine fosse l'unico riconosciuto dalla Chiesa
impropriamente detta "greca". I monaci orientali, per loro natura,
sono monaci di un determinato monastero e non membri di corporazioni più vaste.
Nel 726 l'imperatore
bizantino Leone III Isaurico, emanò un editto con il quale ordinava la
distruzione delle immagini sacre e delle icone in tutte le province
dell'Impero. Mosaici e affreschi furono distrutti a martellate, le icone fatte
a pezzi e gettate nel fuoco; furono eliminate molte opere d'arte e uccisi
diversi monaci. Motivo del provvedimento era quello di stroncare il commercio
delle immagini e combattere una venerazione considerata superstizione e
idolatria. Questa lotta, detta iconoclasta,
mise in fuga dall'Oriente migliaia di monaci, che per sfuggire alla
persecuzione si rifugiarono nelle estreme regioni meridionali dell'Italia e nel
Salento. Intorno all'anno mille popolarono il massiccio, svolgendo un ruolo
importantissimo, pare siano stati proprio loro a importare per primi il
castagno, pianta che tuttora caratterizza buona parte del paesaggio e da cui si
ricavava una farina che sfamava la povera gente del luogo.
Tra
tutti un ruolo importante nella religiosità popolare della parte meridionale
Apromontana lo svolge San Leo, una
vita vissuta fra i monti di Bova e Africo, coperti di neve per alcuni mesi
dell'anno, pianori e dirupi immensi. Un paesaggio selvaggio e suggestivo, fra i
più duri e inospitali dell'intera regione.
Comunemente
chiamato San Leo (ma forse il suo
nome potrebbe essere Leone o Leonzo) protettore della città di Bova, Africo e
dell’Arcidiocesi Reggio-Bova, questo monaco ha riempito da sempre la vita delle
comunità dell’Aspromonte. Controversa e oggetto di disputa sono stati le
ipotesi sulla data della nascita e della teoria sui suoi natali, una questione
che vede da sempre contrapposti gli abitanti di Bova e Africo, accomunati da una
suggestiva fede.
Secondo
alcuni San Leo sarebbe nato a Bova
dalla famiglia Rosaniti e avrebbe vissuto la sua vita monastica in montagna nel
convento dell’Annunziata nei monti intorno ad Africo. Secondo altri sarebbe
nato ad Africo all’epoca casale di Bova.
Egli
passò gran parte della sua vita ad attenuare le sofferenze della povera gente,
conducendo un'esistenza votata al martirio fisico e alla solitudine fra le foreste
aspromontane. Ancora oggi nei luoghi della sua vita sorgono edicolette votive,
nicchie, chiesette a perenni testimonianze della sua presenza, e della sua
importante opera arricchita da un numero imprecisato di miracoli e soprattutto
dai racconti popolari.
E
per questo che si può notare in modo evidente e commovente tutta la devozione
della gente d'Aspromonte, un sentimento infinitamente grande e travolgente.
Bisogna
vivere certi momenti per capire come la vita di queste comunità è da sempre legata
alla figura di San Leo che riesce a
distogliere gli uomini dal tempo che passa inesorabile, alla malignità degli
uomini, alla fragilità della vita terrena.
Di
fronte alla grandezza di queste figure, nessuna differenza sociale, culturale o
geografica, tutti accomunati dagli stessi sentimenti, che appaiono subito
evidenti, e sono testimoniati da suppliche, lacrime e preghiere, ma soprattutto
dal grande trasporto emotivo che accompagna chiunque giunga su questi monti nei
giorni di festa.
A
Bova il 26 Aprile si rinnova il
tradizionale appuntamento con le “novene” in onore del Santo Protettore San Leo, per nove giorni alle 6 e 30
del mattino, i Bovesi si recano in chiesa per rendere omaggio con la loro
devozione a questo grande Santo. La “novena” è particolarmente sentita ed è
l'unico evento che riesce a riempire la chiesa, vuota per la maggior parte
dell'anno, si viene a creare un'atmosfera di profonda devozione e profondo
rispetto verso un Santo che è da sempre il punto di riferimento, aiuto e
conforto per tutti coloro che a lui si rivolgono con cuore sincero e a lui si
affidano chiedendogli di intercedere presso il Signore per aiutarli nelle
difficili prove che il destino riserva loro.
Il 4
Maggio, il Santo viene esposto sulla "vara" e portato in
processione per le vie del paese, accompagnato dalla banda musicale “Città di
Bova”costituita nel 1898. Impossibile rimanere insensibili di fronte al busto
in argento custodito per tutto l’anno in una cappella nel Santuario a lui
dedicato contenente le reliquie del Santo. Un tempo per aprire e prendere
l’urna con le reliquie e il busto erano necessarie quattro chiavi: una tenuta
dal Vescovo, un’altra tenuta da un Canonico, un’altra ancora dal Sindaco della
città e l’ultima dal Rettore del Santuario. Il 5 Maggio, giorno di festa ufficiale, dopo che il Vescovo, amministra il Sacramento
della Cresima il Santo viene portato in spalla su di un'imponente “vara” datata
1858, dono di Mons. Autelitano, bovese, Vescovo di Nusco, in una processione
che attraversa il centro storico di Bova, su e giù per suggestivi vicoli e
strette viuzze che si inerpicano fino a giungere al Santuario di San Leo.
Qui
il busto argenteo e le reliquie rimangono in esposizione e durante queste sere
vengono svolte le “ ’rraziuni di Santu Leu” (orazioni in dialetto) che
attraggono molta gente, fino al giorno 8
Maggio quando si procederà alla chiusura del Santo nella cappella con una
profonda celebrazione rimandando l'appuntamento al prossimo anno.
Giorno
5 maggio gli africesi invece si recano in pellegrinaggio dal paese nuovo posto
sulla costa ionica orientale al paese vecchio abbandonato nel 1951 posto tra le
inaccessibili montagne, dove si trova la Chiesa dedicata al Santo. Mentre la
festa ufficiale si svolge il 12 Maggio.
L'importanza
di una figura che rimarrà incessante testimone, custode e protettore di due comunità
e della loro storia, protettore di queste montagne incantate e impenetrabili, e
di quanti negli anni a venire continueranno a scriverne la storia.
Umiltà, preghiera, penitenza,
amore per il prossimo, tutto questo: San Leo
Di
San Leo non possiamo precisare
l’anno di nascita, perché non risulta da nessun documento. Alcuni storici
affermano sia nato nel V secolo, altri tra l’XI e il XII secolo.
Da
adolescente incominciò ad esercitarsi nelle virtù del digiuno e spesso si
privava del suo cibo per darlo ai poveri. I genitori lo vedevano prostrato
davanti alle sacre immagini a contemplare per ore e ore.
Sebbene
ancora giovane decise di lasciare la famiglia e entrò nella vita monacale
ispirata alla regola di San Basilio nel convento dell’Annunziata ad Africo.
In
quel tempo Africo era sotto la giurisdizione della Diocesi di Bova e vi era un
convento di monaci basiliani. Esso si trovava in mezzo alle foreste di
difficile accesso. Oggi esiste la Chiesa dell’Annunziata edificata sui resti
della vecchia casa intorno al 1600 intitolata a San Leo. Vi è chi pensa che San Leo sia il fondatore del convento e
lo colloca nel V secolo.
Lui
sottoponeva il suo corpo a dure penitenze. Una notte i suoi confratelli, non
trovandolo nella sua cella, furono mandati a cercarlo e con grande meraviglia
lo videro nudo, immerso nelle acque gelide di un laghetto, dove si flagellava e
pregava. Riferirono il tutto ai Superiori del convento i quali proibirono che
se ne parlasse. E così continuò a sottoporre il suo corpo a dure penitenze per
molti anni.
“La
preghiera è la corona di tutti i santi: infatti senza di essa non si entra nel
Regno dei cieli; non tutti santi sono martiri, non tutti sono vergini, non
tutti sono anacoreti e monaci, non tutti poveri, ma tutti salvi per la
preghiera”(San Leo - Storia e fede di Ercole La Cava).
Il
suo spirito era marcato dalle piaghe del Signore , infatti preservava la sua
cerne dalle debolezze e dai desideri digiunando per buona parte della sua vita,
si nutriva di erbe raccolte nella montagna, assaporando l’amarezza della
sofferenza così sconfiggeva il demonio fin ad ottenere la grazie da Dio.
San Leo oltre a pregare, studiare, fare
penitenza lavora la pece com’era uso fare in quel tempo in mezzo alle foreste
dell’Aspromonte. Faceva il “picaro” nella fornace che tutt’oggi è chiamata “la fornace di San Leo” posta nei
pressi del lago.
E
grazie al suo lavoro che in quegli anni di carestia cercava di sfamare i più
poveri, infatti, si raconta,che il primo miracolo di San Leo fu quello di trasformare le “palle di pece” in pane per
poter sfamare i bisognosi.
In
seguito alla propagazione delle sue opero pensò di evitare tanta acclamazione e
rifugiarsi in solitudine in Sicilia.
Abbandonò
le tanto fraterne e amate montagne dell’Aspromonte e attraversando lo stretto
approda a Messina. Cercò e trovò un villaggio tranquillo dove poter stare in
solitudine e contemplare il Signore, di nome Rometta, non lontano da Messina
dove vi era anche un lago dove poter continuare a fare penitenza. Visse qui per
diversi anni e ancora oggi nei pressi del lago sorge una chiesa a Lui dedicata.
Arrivato
il tempo della premiazione per le sue ineguagliabili virtù e di tornare nella
casa del Padre decise di fare ritorno nelle tanto amate foreste e fare ritorno
nel convento. Giungendo a Reggio Calabria nel rione oggi chiamata appunto San
Leo di Pellaro manifestò la sua santità.
Lungo
la strada, rimasto senza forze, incontrò un vecchio pastore che portava sulle
spalle una fascina di legno. San Leo
gli cercò aiuto, ma in un primo momento, il povero vecchio si rifiutò, in
seguitò però attirato dai lamenti e dalle suppliche del monaco pose a terra la
legna e lo prese sulle spalle. In questo luogo, lungo la strada che da Bova
porta ad Africo, dove avvenne l’incontro ancora oggi è visibile un edicoletta
dedicata al Santo chiamata “croce di San
Leo”.
Con
meraviglia man mano che percorreva il sentiero che portava al monastero invece
di sentire fatica era come se sulle spalle portasse qualcosa di molto leggero.
Ben presto giunsero nei pressi della chiesa e salutato il Santo, il vecchio
pastore si accingeva a tornare indietro a prendere la sua fascina di legna, ma con stupore vide che era già
accanto a lui. Il vecchio capì di aver aiutato un Santo e si offrì a fare altri
servigi, così San Leo gli chiese di
andare dal Priore del convento a chiedere di farsi confessare.
Il
Priore infastidito alzò il braccio in atto di disprezzo e disse: <<
chissà come si chiama questo poveraccio>> e subito s’ accorse che il
braccio gli era rimasto paralizzato.
In
quell’istante l’anima di San Leo
abbandonò il suo corpo e le campane delle chiese suonarono a festa e nel luogo
in cui fu ritrovato il corpo giunsero miriade di persone da ogni luogo e gli
ammalati ricevettero molti prodigi. In quel luogo fu costruita una cappella che
ancor’oggi si può ammirare: “la cupola
di San Leo”.
Giunta
la voce a Bova della morte e dei miracoli di questo Santo i bovesi raggiunsero
il monastero dei frati e chiesero i resti mortali che racchiusi in un’urna
furono portati in processione a Bova.
Arrivati
a “porticella”(oggi chiamato anche “passo della zzita”) la gente accorse
incontro e lo seguirono fin in città e
in seguito fu costruito il santuario.
Nella
chiesa attuale risalente al 1606 vi è una cappella dove sono custoditi le
reliquie del Santo: cioè le ossa della mano, dei piedi del cranio e altre
piccole parti mentre altre si pensa siano nella chiesa di Africo Nuovo.
Pasquale
Callea
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