sabato 4 febbraio 2012

La signora di Ellis Island


La signora di Ellis Island
Fare la recensione di questo libro per me è molto difficile. Non mi reputo degno di parlare di un libro che mi ha colpito e che reputo uno dei pochi capolavori della letteratura italiana. Qualcuno si chiederà: davvero questo libro è così bello? Vi posso solo dire una cosa. Per me lo è. Quando l’ho letto ho pensato immediatamente all’Iliade e all’Odissea. Questi due capolavori infatti oltre ad essere pieni di gesta eroiche, parlano di un Popolo. Questo libro allo stesso modo parla di un Popolo, il Popolo Calabrese. Ecco perché vi dico che per me lo è. Chi è il nostro Omero? Uno sconosciuto, un ingegnere di sessanta anni, Mimmo Gangemi, che per anni ha mandato i suoi scritti alle più svariate casi editrici fin quando ormai “vecchio” è stato scoperto Giancarlo De Cataldo. Il nostro narratore usa un linguaggio che tocca punti altissimi e allo stesso tempo abbastanza bassi, ma mai troppo volgari, che può essere ironico e drammatico nella stessa pagina. Il libro è diviso in due parti, il protagonista principale è un uomo Giuseppe, figlio maggiore di una famiglia contadina. Nella prima parte del libro è costretto a partire in America perché deve potersi elevare un po’ per poter sposare Assunta, visto che la famiglia di lei si consideravano troppo per lui. Insieme a lui partono tanti amici tra cui Antoni, che invece non vuole più tornare in Calabria, vuole vivere in America e allontanarsi dalla gente che lo conoscono e conoscono la sua vergogna, le corna della madre e delle sorelle. Appena arrivato alla Merica, Giuseppe non si sente bene. Non sapendo di essere allergico, ha mangiato delle fave e non si regge in piedi. Non riesce a passare la visita di controllo e viene messo in isolamento in attesa di essere rispedito a casa. Mentre è colto dalla disperazione, gli appare una signora vestita di azzurro e con un bimbo in braccio, che lo aiuta ad uscire dall’isolamento e lo porta fuori dalla zona di controllo, dove gli amici stupiti lo riabbracciano. Per lui quella signora vestita di azzurro è la Madonna del Carmine. Giuseppe così può iniziare a vivere in America e insieme a Antoni fanno dallo zio Rosario che lavora in una miniera. Anche Giuseppe inizia a lavorare in miniera e a guadagnare i soldi per poter ritornare in Calabria e potersi comprare un podere. Assunta invece è persa. La famiglia l’ha fatta sposare con un altro. Durante il suo soggiorno in America, apprendendo la vita faticosa e discriminata degli italiani emmigrati, conosce due persone, uno è Ehitù, un ragazzo orfano che diventa suo fratello minore, l’altra è Sara. Ehitù è il protagonista di alcune delle scene più toccanti e tristi di tutto il libro. Sara potrebbe essere colei che cambia i piani di Giuseppe  facendolo rimanere in America. Così non avviene perché il padre di lei Turuzzo si oppone. Guadagnati i soldi necessari, ritorna in Calabria. Prima di partire però a Novaiorca intravede una donna che le sembra familiare. Un suo amico rivelerà allo zio Rosario che si tratta di una donna che se la intende con un capo dei gendarmi di guardia a Ellis Island e che quando può lascia passare qualche paesano. Giuseppe stava parlando con un altro e non ascolta altrimenti anche lui avrebbe capito che era stata lei a salvarlo quel giorno. Il mistero è svelato, ma Giuseppe non lo so e mai lo saprà.  Nel suo paese si sposa con Anna Maria, una ragazza che apparteneva ad una famiglia nobile decaduta. Mentre si costruisce la sua famiglia arriva la Grande Guerra e Giuseppe è chiamato alle armi. Sfuggito alla morte, a casa lo attende la tragedia più grande che gli potesse capitare: la morte della sua primogenita Antonia per via della spagnola. Questa tragedia lo incattivisce con i figli rimasti soprattutto con Saverio, anche lui ammalato di spagnola ma sopravvissuto, e lo fa allontanare dalla sua fede che fino a quel momento era salda. Pian piano però supera la tragedia e anche la fede ritorna e con lui il desiderio di avere un figlio prete. Il libro a questo punto passa a parlare di altri due protagonisti Saverio e Ciccio. Uno nella sua vita fuori dal paese e nel mondo, tra Roma, Bengasi e come prigioniero in Australia e Inghilterra, l’altro mentre diventa prete e affronta i dubbi riguardo a questa scelta. Saverio dopo un lungo viaggio di formazione, torna al paese e lì capisce che quella è la sua casa. “Sapeva che gli affetti li avevano riaffondato lì le radici, frantumando l’idea che, dopo tanto girovagare, non si sarebbe più adattato. Era il punto d’approdo, quel disordinati ammasso di case a cavalcioni sul dorso della collina, con i muri di nuda pietra che si ergevano a scorticare la natura, con la distesa grigia di ulivi e i fianchi del monte vestiti di fitta brughiera e d’inverno imbiancati da una nebbia che scendeva a sfumare in dissolvenza ogni cosa. Gli era persino voglia di sentir soffiare il levante tanto odiato dal padre: conteneva il fiato di tutti e le parole che furono, e che a lui erano mancate. Era un mondo di miseria, certo, con nulla delle luci di Bengasi, del senso di pace che trasmetteva Lekemti, delle verdi campagne dell’Essex. Ma si appartenevano l’un l’altro, era l’unico posto dove fermare il suo tempo, perché lì dimoravano i suoi morti, che incatenavano più dei vivi, lì lo inchiodavano il marchio di troppi ricordi, lì si sentiva a casa.”

Voto 10/10

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