La Domenica delle Palme (ingresso di Cristo in
Gerusalemme), a Bova (RC), viene celebrato un rito unico e spettacolare,
da qualche anno riscoperto anche dal resto della penisola.
Un momento di collettiva sacralità popolare
nel Parco Nazionale dell’Aspromonte che consiste nel portare in processione delle grandi
figure femminili costruite con foglie di ulivo intrecciate da mani sapienti,
abbellite con fiori freschi, primizie, frutta fresca e nastri di vari colori;
si fa a gara a chi addobba con frutta di fuori stagione, prodotta nel proprio
podere e sapientemente curata fin a questo periodo,come a d esempio i
fichidindia.
Sono conosciute con vari nomi, a seconda
delle interpretazioni: “papazze”
termine greco-calabro che indica le bambole e nel linguaggio dei pastori indica
le capre senza corna; “persephone”
volendo alludere ad un collegamento con il mito greco e proporre un suggestivo legame
tra presente e passato; “madammi”
termine di origine francese che secondo alcune testimonianze veniva usato dai
bovesi fin allo scorso secolo; o più semplicemente per i bovesi e soprattutto
per i credenti “parmi” termine che
in dialetto significa palme.
Da alcuni anni nelle settimane che
precedono la Domenica delle Palme viene attivato un laboratorio per la
costruzione delle palme che vede le famiglie bovesi direttamente impegnate a
dare una mano quanti si sono avvicinati per la prima volta con spirito di
collaborazione e voglia di riscoprire le tradizioni.
I contadini, intrecciando con maestria e
pazienza, foglie di ulivo intorno ad un asse di canna detta “steddha”,
costruiscono delle figure femminili, le cosiddette “parmi”.
Così la mattina della domenica delle Palme
i possessori delle palme e non, si radunano
nella splendida Piazza Roma e in processione raggiungono il santuario di
San Leo, dove vengono benedette e in seguito portate per le strette e tortuose vie di Bova, in una elegante e gioiosa
sfilata di forme e colori fino alla chiesa di Santa Caterina.
Solo fino a qualche decennio fa le Palme
venivano realizzate dalle singole famiglie che, spinte in una sorta di
competitività, producevano figure sempre più grandi e decorate. Attualmente
questo rituale viene svolto insieme da tutta la popolazione, qualificandosi
come uno dei più interessanti momenti di aggregazione sociale dell’Area
Grecanica.
Alla conclusione delle celebrazioni, le sculture,
portate fino alla piazza, sono avvicinate dalla gente ed in parte smembrate
delle loro componenti, le “steddhi”, che vengono distribuite tra gli astanti.
Alcuni collocano almeno una “steddha”
benedetta su un albero di ogni singolo podere, dove vi rimarrà per tutto l’anno
a testimoniare l’intimo rapporto sacro che unisce uomo e creato.
Altri fissano le trecce di ulivo sulla parete
della camera da letto, altri sull’anta della cristalliera assieme ad immagini
sante e alle foto dei propri familiari.
Infine, c’è chi utilizza le foglie
benedette per “sfumicari” (togliere il malocchio) alla casa, compresi i suoi
abitanti.
Questa parte del rito si celebra ponendo su una brace, ardente, tre grani di
sale più quattro foglioline consacrate disposte a croce.
Si incensano gli ambienti con il fumo che si innalza dalla brace, accompagnato
dalla recita della seguente preghiera: “A menza a quattru cantuneri nci fu
l’Arcangelu Gabrieli, dui occhi ti docchiaru, tri ti sanaru, lu Patri, lu
Figghiu, lu Spiritu Santu. Tutti li mali mi vannu a mari e lu beni mi veni
ccani. Lu nomu di San Petru e lu nomu di San Pascali, lu mali mi vai a mari lu beni
mi veni ccani”.
I ramoscelli benedetti, anche se vecchi di
un anno, conservano intatta la loro sacralità, come avviene per qualsiasi altra
palma o ulivo benedetto, pertanto per disfarsene la gente non li butta nella
spazzatura ma li incenerisce col fuoco.
Per un’intera mattinata il piccolo
capoluogo dei Greci di Calabria vede sfilare dame eleganti, dall’aspetto
austero ma allo stesso tempo fragile.
L’origine greca del rito
Non conosciamo l’origine del rito che
probabilmente risale al culto delle popolazioni preistoriche che usavano
evocare la “Madre Terra” con riti propiziatori dei raccolti e della fertilità:
in tutta la cultura contadina del Sud Italia, ancora affiorano tracce di simili
culti antichissimi.
Ma il rito che si ripete ciclicamente a Bova
è speciale perché le figure femminili, ci ricordano il mito greco di Persephone
e di sua madre Demetra, dee dell’agricoltura.
Il mito racconta che Ade, signore
dell’oltretomba, invaghitosi della fanciulla Persephone (Kore), la rapì
portandola nel suo regno, dove le fu offerto con l’inganno di mangiare un
melograno che l’avrebbe costretta a risiedere per sempre in quel luogo. Demetra
reagì al rapimento della figlia impedendo la crescita delle messi e scatenando un
inverno perenne, intervenne Zeus che mise d’accordo Demetra e Ade e dal momento
che la fanciulla aveva mangiato solo sei semi di melograno le fu permesso di
ritornare sulla terra per sei mesi l’anno. Fu così che la dea trascorse sei
mesi negli inferi e i restanti mesi sulla terra con la madre, portando son sé
l’abbondanza della stagione primaverile.
Testimonianza di questi riti sono confermati dal ritrovamento di un reperto nel sito archeologico di
Umbro, nel comune di Bova Marina. Si tratta di una piccola statuina in
ceramica, databile al V millennio a.C., che in conformità all’estetica
neolitica, sembra enfatizzare i caratteri femminili, al fine di collegare la
fertilità della donna alla produttività dei campi, elementi fondamentali per la
crescita dei primi agricoltori.
Questi ancora poco noti culti preistorici
sembrano siano sopravvissuti nel corso dei secoli anche nei rituali pagani
dell’antica Grecia, soprattutto nel mito di Demetra e della figlia Persephone,
la cui venerazione è stata sia nella polis magno greca di Locri, sia nel sito
archeologico di San Salvatore, nei campi di Bova, dove è stato rinvenuto un
balsamario in ceramica raffigurante a Kore, databile tra il VI e il V secolo
a.C..
Ma più semplicemente è un modo per
celebrare tutto il creato, la bellezza della natura e ringraziare Dio per tutto
questo, come faceva ad esempio San Francesco d’Assisi.
Il passaggio dall’inverno alla primavera,
il ciclo della vita, alla fertilità e alla condizione nubile della donna ma
anche il rapporto tra Bova e le campagne circostanti tutti riferimenti alle
feste liturgiche del mondo ortodosso bizantino.
Riferimenti che possiamo confermare dal
fatto che ci troviamo in Magna Grecia e che a Bova ancora oggi si parla la “glossa greca”, ricca di vocaboli dorici,
nella letteratura bovese sopravvivono figure mitologiche quali le “anaràde”
(Nereidi), le ”lamie”, e ancora “Sibille” e Madonne; a Bova è viva la bella
usanza di offrire al santo protettore San Leo i germogli di grano votivo, cioè
piatti colmi di grano germinato al buio,in una lettera indirizzata ai bovesi,
San Luca, vescovo di Bova nel XII secolo, fa riferimento a dei riti che forse
si possono leggere come simili a quello tutt’ora praticato, relazione tra le
sculture vegetali di Bova con la rappresentazione della Quaresima in area di
influenza bizantina (Kyrà Sarakostì) infatti In tutta l’attuale Grecia è
raffigurata come una figura femminile spesso come una piccola bambola, in pasta di pane, con sette piedi che fungono da
calendario liturgico per ciascuna settimana di digiuno, simile a quelle
intagliate dai pastori dell’area greca di Calabria come nella tradizione
culinaria, nella cosiddetta “musulupa”, particolare tipo di formaggio a forma
di donna prodotto durante la Settimana Santa e consumato la mattina di Pasqua.
Ma anche in alcuni dolci dette “ngute”, spesso
raffiguranti donne decorate con uova sode, simbolo per eccellenza
dell’abbondanza e delle rinascite.
Si può supporre pertanto una
stratificazione della tradizione greco bizantina sul preesistente mito.
Tutto ciò ovviamente necessita di ulteriori
e più approfondite indagini, ma quello che conta è che questo affascinante rito
vada tutelato come patrimonio di Bova e di tutto l’Aspromonte, preservato per
le sue implicazioni storico-culturali e, per la sua simbologia, proposto quale
emblema del nostro rispetto e legame con la natura.
Quasi del tutto perduta, questa antica
tradizione è stata ripresa un paio di anni addietro da alcune famiglie bovesi.
Il rito è tuttavia alquanto sentito se il signor Mesiano Giuseppe, emigrato in
Lombardia negli anni Cinquanta, realizzò la sua palma in casa e la portò a
benedire nel duomo di Milano.
Ogni anno alla festa religiosa seguono gli
eventi organizzati dal Comune di Bova:
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Nel 2009 il rito è stato
catalogato, tra i beni Beni Etnoantropologici Immateriali della Regione.
·
Nel 2012 in piazza dei
Ferrovieri è stato presentato il mosaico “Sacralità Grecaniche”: omaggio al
rito pasquale e ai suoi ancestrali riferimenti mitologici in presenza delle
autorità politiche provinciali e regionali,è allietata dalla degustazione di
dolci tipici pasquali. Sempre nello stesso anno è stata donata una Palma a Sonia Ferrari, Presidente del Parco
della Sila che ha portato il simbolo dell’Aspromonte Greco nell’ambito degli
eventi previsti nella mostra “Il Respiro della Sila”, che inaugurata a Roma, il
12 Aprile, in occasione della Festa di Cibele, presso il Centro Studi Cappella
Orsini di Roma. L’emblema della Primavera grecanica, farà da dono a Cibele (un'antica
divinità anatolica, venerata come Grande Madre, dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici) le cui origini mitiche
si intrecciano con quelle di Demetra e Persephone.
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Il 16 Settembre 2012, presso la
sala del consiglio comunale di Palmi e condotta dalla presentatrice di Rai
International Rossella Diaco le “Palme di Bova”
sono state premiate tra le meraviglie calabresi dal Forum Nazionale dei
Giovani.
·
Da qualche anno invece,
dall’inaugurazione del Parco Archeologico ArcheoDeri in Bova Marina nel giugno
2010, il Sindaco di Bova, dona una palma
al comune di Bova Marina al fine di esporla nel centro di Documentazione del
Parco, dov’è parte integrante di un allestimento museale che pone il bene
etnografico a simbolo della minoranza storico linguistica dei Greci di
Calabria.
Attraverso iniziative come la Domenica
delle Palme si promuove non solo il recupero dell’identità storico culturale
della Calabria greca ma anche il recupero architettonico dell’abitato in modo
da dissuadere la gente ad abbandonare il borgo e piuttosto aiutarla ad
investire per far nascere nuove piccole attività imprenditoriali turistiche e
non solo.
Pasquale
Callea